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MELEGARI Resto in piedi per porgere un saluto ai protagonisti de "L'onore Sofferto". Dichiaro aperto il convegno che sarà condotto dal professor Parlato; vi ringrazio dell'attenzionee cedo la parola al professor Parlato FORNARO Il professor Parlato è stato allievo di Renzo de Felice; attualmente ha la cattedra di storia contemporanea dell'università di Roma e ha accettato di condurre questo nostro incontro. Ricordo che il professor Parlato recentemente su questi argomenti ha recensito un libro che riguardava la ripresentazione di Dino Grandi del 25 luglio. 25 luglio e 8 settembre sono date che ricorreranno spesso in questa sala. Do la parola al Professor Parlato PARLATO Ringrazio questo clima e gli organizzatori, Sono sempre abbastanza emozionato quando si tratta di pralare di Storia e di storie a chi queste storie le ha vissute e quindi ho sempre un momento di perplessità, di rispetto e di pudore nei confronti delle esperienze che così fortemente hanno segnato vite umene e intere generazioni. Vorrei però dare subito la parola al dottor Togni perché deve fare uin'introduzione ali lavori da parte dei non cooperatoti- TOGNI Come si conviene secondo principi di buona educazione civile e militare, mi presento. Sono stato un marò, allievo ufficiale del battaglione Barbarigo reggimento San Marco della X flottiglia MAS, una delle unità più famose e
rispettata di ogni flotta ar,arta del tempo nel mondo. Combattente volontario del Ptrimo plotone della terza compagnbia dal febbraio 1944 ho partecipato ai fatti d'arme dell'agro pontinoper la difesa di Roma fronteggiando sulla testa di ponmte di Anzio e Nettuno gli anglo americani sbarcati il 22 gennaio. In aprile nello scontro fra uno squadroine di carri sherman e un battaglione di canadesi della quinta armata americana contro tre avamposti situati viciniossimo al nemico ci difendemmo e gli infliggemmo perdite a loro con morti e feriti nostri ma i superstiti involontariamente vivi vennero catturati. Diventai così un POW Prisoner of War ed ebbi una matricola 81I238150 mentre non l'avevo avuta come soldato e personalmente ero andato al fronte senza aver giurato. Sono passato per il campo 326 di Aversa poi per il 151 di Biserta, il 131 di Orano e il 21 settembre 1944 sono entrato in quello di Hereford nel Texas. Il 7 agosto 1945 gli americani ci hanno sottoposto per la firma il modulo di collaborazione che ho rifiutato. E' da notare il fatto avvenne fra l'atomica del 6 e quellla del 9 agosto e che la guerra in Europa era finita l'8 maggio. Ho lasciato Hereford il 31 gennaio 1946 come POW nopn collaboratore, sono ritornatto nella mia casa il 2 marzo del 46. Vi indirizzo queste poche parole in quanto da 6 anni l'assemblea e la direzione della nostra associazione mi hanno designato quale responsabile del gruppo Giovani NON e ne sopno sinceranente molto onorato perché i giovani sono il futuro e il fatto che gli antichi- noi non siamo vecchi- posssano fianlmente raccontare in pubblico ai giovani le loro storie modeste ma vere è giusto e utile e per noi anche bello e commovente. Ragazzo, voi siete i nostri figli e nipoti. I NON oggi sono tutti qui, i presenti, gli impediti e coloro che sono andatin avanti. E' una staffetta meravigliosa. Lo sdo che sono frasi retoriche, ma hanno anche un contenuto reale nel quale abbiamo creduto e per il quale abbiamo agito con coerenza e taciuto. Siamo qui soltanto per testimoniarlo, realtà e retorica, ma anche il mito è retorica, anche le Termopili, anche la poesia, la'amore, la commozione. Proprio questa settimana si è registrato il 60° anniversario di una delle date più tristi e tragiche della storia d'Italia. Mi auguro, anzi non dubito, che le persone ogii presenti a rappresentare tre generazioni non si accapiglieranno. Penso che ognuno saprà dimostrare di essere di una parte sola, poiché se divisi tutti hanno sofferto e pagato il loro conttributo, chi più, chi meno, per il futuro occorre sentirsi soltanto Italiani. Tutto cominciò con la frase "La guerra continua" comunicato ufficialmente dal nuovo governo dopo il 25 luglio 1943. Quell'intermezzo di 45 giorni assurdi, caotici, dilettanteschi, favorì e detreminò la dissoluzione che, essendo prevedibile, forse è prorio quanto si voleva conseguire. Ciò che avvenne dopo purteroppo era ciò che era fatale avvenisse. Se da una parte non si badò al prezzo pur di abbattere un regime, semmai lo avrebbero dovuto fare tre o quattro anni prima, dall'altra la furnberia nazionale portò il popolo comprensibilmente a fare o non fare, pensando in primo luogo alla sopravvivenza, eppure nonostante quelle condizioni gli italiani continuarono a combattere quasi per altri due anni, divis appunto, come guelfi e ghibellini, bianchi e neri, rossi e neri e via almanaccando. Personalmente ho avuto la fortuna dfi fare la guerra soltanto contro il nemico, non quella civile. In quei due anni sono accaduti tanti fatti, una parte di essi non è stata raccontata. Se non venissero testim,oniate un giorno per le generazioni succesasive sarebbe come se non fossero mai accaduti ma la storia, piaccia o no, è il notariato di tutta la realktà. Chi si ritira dalla storia non ha che lasciarsi morire poiché muore comunque e allora mettiamo tutti le prove sul tavolo. Non si capisce il sistematicvo atteggiamento manicheo che gli italiani hanno nel DNA in base al quale se un soldato o un prigioniero dopo l'8 settembre non vuol collaborare con i tedeschi è buono; se un soldato prigioniero non vuol collaborare con inglesi, russi e americani è cattivo. E' successo pure al mio libro "Avevamo vent'anni" capitato fortuitamente in mano a Giorgio Roscià (lo porto solo come esempio). Egli ne fa una recensione nel dicembre 1990 nel numero 34 della rivista "studi e ricerche di storia contemporanea". Tredici anni fa non si parlava ancora di revisionismo, poiché il muro era appena caduto e i ragazzi della Repubblica Sociale erano stati soltanto ignorati. Roscià infatti non usa quell'espressione, giustifica la pubblicazione e ne fa una critica libraria in fondo positiva pur mostrando pèregiudizio, non conoscenza e superficialkità nei confronti di persone che stavano dalla parte opposta alla sua. Comunque, e mi è andata bene, il senso del giudizio è che noi stavamo dalla parte sbagliata ed è proprio ciò che ancora oggi, senza arroganza, noi rifiutiamo. Il nostro discorso, a sessant'anni dai fatti, non è proposto in un tribunale per essere assolti o condannati; ci interessa invece che i giovani sappiano per essere capiti. La storia di quegli anni va riuscritta perché sarano gli elementi da aggiungere che produrranno quelle rettifichw che consentiranno ai posteri con tutti i dati in mano di comporre un quadro unitario, veritiero per poter emettere un giudizio. Nella storia di ciascun popolo ci sono ombre e luci, più le prime che le seconde, ma ad ogni popolo va riconosciuto il diritto di conoscere tutti i fatti , non di esserne denudato, perché in quei fatti sono registrati anche ideali, abnegazioni, sofferenza, pazienza, speranze, delusioni tenacia di ciascuno. Un popolo è una grande orchestra nella quale pure l'ottavino e il trianhgolo fanno sentire le loro note. I giovani devono sapere da dove vengono per capire dove dirigersi. Mentre tutti ipopoli accelleravano verso il nuovo millennio noi calcificavamo la nostra arretratezza. Così, se è importante testimoniare i fatti ai giovani, ancora di più è cercare, finchè siamo vivi, di fare capire loro in quale atmosfera si è inserito il sentire e l'agire, diversi ma simili, degli indsividui protagonisti, altrimenti da un deprecato monopensiero si è soltanto passati ad altri monopensieri. La democrazia è un'altra cosa ma dobbiamo ancora impararlo poiché per ora non abbiamo nessuna nozione di questo concetto: confondiamo democrazia che è un impegno con anarchia che è un disimpoegno. Sono più di mille anni che ci tengono divisi, che ci mettono gli uni contro gli altri. Bisogna uscirne, decidersi ad incominciare. Abbiamo tante qualità ma siamo indietro sul piano culturale, etico e politico e in un quadro del genere prevalhgono i difetti e in relazione ai nostri comportamenti gli stranieri ci considerano poco affidabili. E' il cittadino che ancora manca ll'Italia, il civis che Roma avevq inventato e che i francesi hanno resusciatto poer l'Europa da quasi 215 anni. Sentirsi cittadino significa avere consapevolezza di appartenere alla propria terra, dicxiamola la parola giusta, alla propria Patria, che è la terra dei padri, la lingua, la cultura, le tradizioni, la famiglia di ognuno con sentimenti, lavoro, gioia eddolri. Significa accettare che lo Stato ci rappresenti e muoversi dentro le sue leggi, riconoscversi nella bandiera, essere fieri della sua storia. Evviva la retorica: dum Italia vivat. Purchè l'Italia viva e gli italiani si sentano solo italiani, non nordisti e sudisti, furbi o fessi. Bisogna credere e tenere duro, non la retorica che porta i volontari alla guerra, le guerre soino tutte orrende e le perdono sia i vinti che i vincitori: non esistono guerre sante. Ho presente però, e lo cito spesso, il motto di Teseo Tesei, medaglia d'Oro alla memoria della X MAS caduto nelle acque di Malta: "Vincere la guerra non è la cosa più importante: importante è farla bene, con coraggio, con dignità". Anche ciascuno dei POW non collaboratori nel suo piccolo ha fatto il possibile pichè se ti ci trovi esiste pure l'onore delle armi e l'onore sofferto, come abbiamo voluto intitolare questo convegno. Il Professor Parlato che lo presiede ci dirà se i suoi studenti universitari e gli stiudenti in generale si pongono problemi storici in modo consono o manicheo e se mostrano di voler conoscere e se fanno tante domande e quali. La scuola è un enorme problema italiano che non si può eludere o pastrocchiare se ci interessa davvero il futuro dei giovani. Di '68 ne basta uno. Un vecchio motto ammonisce: lunga è la via per Damasco. Ma la terra promessa esiste, non è soltanto un sogno o un miraggioo. Occorrono la volontà di mettersi in cammino per cercarla, fede e tenacia per trovarla. E' una gara impegnativa ma stimolante. Anche i NON sono qui per passarvi il testimone: i giovani italiani sono il futuro dell'Italia, dell'Europa e del domani planetario. I giovani sono la ricchezza e la fortuna della Patria. PARLATO Mi pare che potremmo incominciare proprio da questi ultimi concetti espressi con sofferta partecipazione dal nostro amico e capire un momento, almeno per quanto mi riguarda che cosa è successo partendo proprio da quelle due date di cui si parlava prima, il 25 luglio e l'8 settembre, due date che in qualche modo cambiano pesantemente la storia d'Italia, a mio avviso non tanto il 25 luglio, per quanto riguarda il Paese e i prigionieri. Da alcune testimonianze emerge che i prigionieri pensavanoi che la notizia della esclusione di Mussolini dal governo fosse una sorta di pressione propagandistica messa in atto ad arte dagli Americani o dagli Inglesi e anche quando comunque questa notizia viene confermata, e questo vale per i prigionieri di guerra ma vale anche per i soldati e per la popolazione, vale per i fascisti che stanno in Italia, è traumatica ma fino ad un certo punto. Perché in fondo il senso dell'onore, il senso della disciplina, il senso delle istituzioni che era particolarmente sviluppato in quel periodo fa sì che si accetti in qualche modo il cambio di governo ("in qualche modo", anche ob torto collo, voglio dire) perché in fondo c'è sempre l'istituzione, c'è sempre chi rappresenta lo Stato al vertice. Mussolini aveva gestito con difficoltà il rapporto con il Re però sempre in maniera abbastanza chiara: il Re era il Capo dello Stato, Mussolini era solo il Capo del Governo tanto è vero che dopo l'arresto di Mussolini non ci sono tentativi di reazione da parte fascista, un po' perché la situazione lo consentiva poco, un po' anche perché la gente stava a guardare. Il problema centrrale era vedere come si usciva dall'annuncio fatto da Badoglio sulla guerra che continuava perché evidentemente il 25 luglio non si risolveva il problema con l'arresto di Mussolini. Il vero trauma fu invece l'8 settembre, perché l'8 settembre questa figura istituzionale che aveva retto e aveva permesso di riassorbire il colpo del 25 luglio non c'è più; questo determina nel Paese e fra i prigionieri la prima divisione vera dell'Italia in due parti. L'8 settembre determina anche la divisione fisica e politica dell'Italia in due parti: sono convinto che se il Re fosse rimasto a Roma, se il Governo non fosse fuggito sarebbe stato molto più difficile per Mussolini costituire la Repubblica Sociale Italiana. Lo confermano quei monarchici che hanno aderito alla Repubblica Sociale: i Biggini, i Gentile, i Rolandi-Ricci, i Bolla, quei tanti funzionari che andarono al nord non perché fossero fascisti ma perché credevano che andando al nord avrebbero determinato la continuità dello Stato che era stata interrotta dalla fuga del sovrano e del governo. Sarebbe stato più difficile costituire la Repubblica Sociale, l'esercito non si sarebbe sfasciato, nopn ci sarebbe stato il tutti a casa e sarebbe stato anche più difficile per i tedeschi trattare l'Italia come un Paese sul quale fare terra bruciata. Non ci sarebbe forse stata una divisione così forte fra gli italiani, non ci sarebbe stata neppure una divisione così forte fra i prigionieri di guerra perché nessuno avrebbe chiesto ai prigionieri di guerra conto del fatto di essere o di non essere fascisti, cosa che invece diventa fondamentale dopo l'8 settembre. I sentimenti di questo 8 settembre sono rappresentati in una citazione di un diplomatico italiano fascista, nazionalista, monarchico, Attilio Tamaro, che scrisse due grandi volumi che sono stati il vademecum per coloro che non volevano una cultura storica di parte e faziosa; la citazione proviene da un diario che va dal 1919 al 1947 e in data 13 settembre 1943 Tamaro, monarchico e nazionalista, scrive: "Dal 3 all'8 settembre il Re e Badoglio hanno negato ai tedeschi che la resa fosse decisa. Il Re l'8 mattina ha rassicurato Von Rahn che continuava a combattere a fianco della Germania e mai capitolato. E mentiva. Al medesimo Von Rahn il 3 Badoglio aveva dato esplicite rassicurazioni richiamandosi al suo onore di vecchio soldato incapace di accettare una capitolazione incondizionata. E mentiva. La resa vergognosa è stata aggravata da questa disonorante proditorietà. Fino a stamane speravo, mi sforzavo di credere il Re ingannato da Badoglio con i colleghi del Ministero, ma oggi il Re ha dichiarato che il Maresciallo era stato da lui autorizzato a firmare. Dunque il Re sapeva che la firma era avvenuta e mentiva dopo aver accettato le indegnissime clausole dell'armistizio senza abdicare. Dio gli perdoni di aver commesso una viltà e di aver cooperato al disonore della Nazione, se l'ha fatto per insufficienza di spirito. Se invece ha agito così, male suggerito dal suo ministro, per desiderio e speranza di salvare la corona, Dio non glielo perdoni mai." E in data 11 settembre 1943 commentava l'avvenuto armistizio: "Malgrado tante miserie di uomini e di cose, malgrado quest'aria di operetta avvològente falsi eroi delle armi e della politica, il collasso di Roma e la conquista tedesca sembrano il preludio lacrimevole di un'immane tragedia del popolo italiano. Assistiamo a un crollo spaventoso, ben più grave di quello dei politicanti e delle molte divisioni capitolate a Roma senza combattere. E' il crollo di una storia, di una classe dirigente e anche di un popolo". Questa era la percezione che nel 1943 persone che non andarono nella Repubblica Sociale, non fecero la scelta per Mussolini, avevano.Era una percezione comune a molti, i quali ritenevano che il tutto fosse stato condotto in maniera pesantemente negativa. Per questo ho qualche perplessità sui recenti recuperi della data dell'8 settembre come festa della rinascita nazionale, perché credo che l'8 settembre abbia la grande responsabilità di avere diviso gli Italiani, in patria e all'estero. E' questa una sponda in qualche modo giustificazionista per chi in qualche modo aveva la responsabilità dello Stato e dimentica che l'armistizio lungo prevedeva clausole fortemente limitatrici della libertà e dell'indipendenza nazionale e che dichiarava non punibili coloro i quali erano stati in intelligenza con il nemico fino all'8 settembre. Ma soprattutto l'8 settembre, e qui mi riallaccio al ricordo di Renzo de Felice, perché lo ha detto lui una decina di anni fa, rappresenta il momento in cui per quarant'anni successivamente di Patria e di Nazione in Italia non si parla più. L'Italia e la Nazione appartengono esclusivamente alle partite di calcio e appartengopno a qualche partito politico che, nonostante tutto, decide di mantenere questa impostazione. Viene sostituito al concetto di Nazione dopo l'8 settembre il cxoncetto di Resistenza come momento unificante del tessuto nazionale: ma è un altro elelmento di divisione, non è un elemento effettivo di unificazione; elemento che ha anche un altro grosso difetto: non viene maistoricizzata, come per altro non viene mai storicizzato l'8 settembre. La mancata storicizzazione della >Resistenza determina nella Reistenza la mancata visione di un'evento liturgico e mitico che dsve fondare il nuovo Stato. L'Italia è una Repubblica nata dalla Resistenza. Ma una Resistenza che non è né univoca dal punto di vista ideologico e la cui mancata storicizzazione impedisce di andare a fondo sulle ombre che la Resistenza ha presentato. Ancora oggi è difficile, per chi studia Storia, per chi lavora all'Università, affrontare certi temi dalla strage di Schio piuttosto che via Rasella piuttosto che Sant'Anna di Stazema piuttosto che le quattro giornate di Napoli che forse furono solo una e mezza. E' difficile perché la storicizzazione non c'è stata, perché è stato affidato alla memoria dell'Italia repubblicana una Resistenza che non c'è, una Reistenza che è servita da collante per determinate forze politiche. Cosa c'entra tutto questo con voi? C'entra perché in realtà l'inizio di questa evoluzione delle cose parte dai campi di prigionia perché lì dove i soldati italiani abbandonati mentre combattevano in prigionia sono soggetti a scelte, non sono neanche protagonistidi scelte. La campagna delle promesse che viene fatta dagli alleati angloamericani as partire dal luglio 1943 nei confronti dei soldati italiani è pesantissima. Si dice: se voi vi arrenderete e se evitrerete che i nostri prigionieri americani vengano consegnati ai tedeschi, noi libereremo i prigionieri italiani. Questo è il ragionamento che viene fatto dagli americani al momento dello sbarco in Sicilia. Nei primissimi giorni questo fenomeno si realizza: gli Italiani presi prigionieri vengono lasciati, vengono discriminati, cominciamo subito, i fasciusti fdai non fascisti e i non fascisti possonmo tornare a casa. Dopo il 25 lkuglio questa propaganda alleata è ancora più forte e molti reparti si pongono il problema: in fondo, non combattono l'Italia, combattono il fascismo. Ma non appena scatta l'8 settembre scompaiono tutte queste promesse. Le promesse non vengono mantenute, anche perché evidentemente non si potevano mantenere, in quanto non si è mai visto un esercito che non fa prigionieri. L'8 settembre c'è un altro elemento: l'armistizio. Secondo la Convenzione di Ginevra, fra i Paesi tra i quali intercorre un armistizio la prima cosa da fare è lo scambio dei prigionieri. Nelle clausole dell'armistizio breve dell'8 settembre e dell'armistizio lungo del 29 settembre si parla esplicitamente della restituzione dei prigionieri di guerra americani agli Stati Uniti e inglesi all'Inghilterra. Non una parola viene detta sui prigionieri italiani in mano nemica. Qui nasce il problema paradossale che fra Stati Uniti e Regno del Sud, solo Stato riconosciuto dagli Stati Uniti, non c'è più uno stato di guerra ma ci sono i rpigionieri di guerra. La cosa ancora più paradossale è quando i cooperatori vengono mandati in Italia a cambattere o comunque a fare azioni di supporto. Avremo allora fianco a fianco italiani inquadrati nell'esercito del Regno del Sud che combattono insieme a italiani che però sono prigionieri dell'esercito alleato in divisa da prigionieri. Una vicenda quasi da operetta. Quando si stabilì l'armistizio l'Italia ed il Mediterraneo entrarono nella sfera di influenza britannica. A questo punto gli inglesi, poiché le promesse erano state fatte soltanto dagli americani, dissero di non aver promesso nulla riguardo ai prigionieri. Gli inglesi cercarono di valorizzare il ruolo di Badoglio e del Re e avrebbero accettato un limitato scambio di prigionieri se ci fosse stata chiara ed evidente la volontà italiana di combattere, cioè se si fossero ricostituite delle divisioni in grado di combattere con il regno del Sud e con gli Anglo-Americani. Di 61 ne hanno rimediate 6, perchèp le altre si erano sfasciate appunto dopo l'8 settembre. Gli inglesi allora pensarono che non gli conveniva rilasciare i prigionieri per sole 6 divisioni. Si arriva allora al famoso messaggio di Badoglio ai prigionieri dell'11 ottobre 1943 con il quale Badoglio invita i prigionieri di guerra italiani a collaborare con gli Anglo-Americani. L'unica collaborazione possibile è quella di essere utilizzati come manodopera, utilizzazione esclusa dalla Convenzione di Ginevra. Il Governo italiano allora da un lato protesta sull'utilizzazione dei prigionieri di guerra italiani come manodopera, dall'altro invitas comunque a collaborare con il governo e l'esercito anglo-americano. Una situazione insostenibile nella quale, come ricordano molti memorialisti sui non cooperatori, sottolinea il fatto che i non cooperatori richiamassero spesso la condizione di prigionieri di guerra "congelati" al momento della cattura, condizione che deriva inevitabilmente dall'asssenza di disposizioni da parte del Governo. Incominciano i tentativi di arruolare i cooperatori con intimidazioni e con pressioni psicologiche, anche queste ovviamente non previste nella Convenzione di Ginevra. Il problema è che la Convenzione non prevedeva il caso di prigionieri di guerra di un esercito alleato. Quesat situazione vale anche per gli Italiani del nord Italia, perché anche nel nord Italia gli Italiani che vanno in Germania non sono prigionieri di guerra, sono I.M.I. (Intrenati Militari Italiani), che è una formula perversa che impedisce alle organizzazioni umanitarie internazionali di entrare nei campi di concentramento e di vedere come stanno. C'è solo una "piccola" differenza tra le due situazioni che sono entrambe pesantemente punitive nei confronti del soldato italiano: che al nord le autorità militari italiane della Repubblica Sociasle riescono a strappare ai tedeschi una promessa, cioè che gli I.M.I che aderiscono alla Repubblica Sociale possono tornare e arruolarsi nell'esercito della R.S.I., cosa che invece non viene ovviamente fatta per i prigionieri di guerra anglo-americani. Il Regno del Sud non ha evidentemente la stessa forza contrattuale verso gli Americani rispetto a quella della Repubblica Sociale verso i Tedeschi. Degli I.M.I. aderì alla R.S.I. il 5% degli ufficiali e il 7-8% dei soldati, si tratta comunque di percentuali estremamente basse. Nei campi dei non-cooperatori la situazione è molto pesante, nascono, come ricorda Boscolo, giornali. Interessante è anche cercare di capire da questa memorialistica le motivazioni che spingono a cercare di diventare non cooperatori. Certamente la fede fascista, certamente la dignità militarte ed il senso dell'onore, certamente le richieste pressanti di collaborazione fatte dalle autorità dei campi anglo-americani ottengono spesso l'esito contrario e sicuramente certi rivolgimenti di fronte di alcuni noti fascisti che diventano dal mattino alla sera antifascisti inducono altre persone a non accettare questo tipo di situazione. Una cosa mi ha colpito leggendo questi libri: che non c'è una memorialistica dei cooperatori, perché intanto erano molto più numerosi dei non cooperatori, con un rapporto all'incirca di un terzo a due terzi; è possibile che gli intellettuali fossero tutti in questo terzo e che dall'altra parte non si riuscisse nemmeno a tenere la penna in mano? La cooperazione ha stimolato meno il ricorso alla memorialistica, forse perché negli Stati Uniti, in India, ovunque, le condizioni di vita non erano così buone rispetto alle vostre condizioni di vita, inquadrati da ufficiali italiani ma sottoposti al controllo operativo dell'esercito americano e vestiti comunque con uniformi di fatica statunitensi e facilmente identificabili come prigionieri. Erano alloggiati in campi non dissimili a quelli dei NON, lavoravano dieci ore al giorno con paghe modeste e senza nessenua libertà individuale già promessa all'inizio ma poi non mantenuta. Alcuni furono mandati in Italia a combattere contro gli italiani in una condizione di penosa discriminazione perché non avevano neanche il rango e la dignità di soldati. L'impressione che mi sono fatto è che questi cooperatori dopo si siano un po' vergognati della scelta che hanno fatto. Volevo finire con alcune domande che poi spero abbiano risposta nel corso della discussione. Mi interesserebbe sapere se è possibile rintracciare questi giornali, queste copie uniche; mi interesserebbe sapere cosa hanno fatto i NON quando sono tornati a casa, perché so, per esempio, che le prime sedi del MSI sono aperte spesso da NON. Mi viene in mente Oddone Talpo, uno dei primi a organizzare il MSI a Roma e per un lungo periodo volontariamente da la sua collaborazione al MSI. Dalle carte dell'Archivio di Stato di Roma si nota frequentemente la domanda del Ministero degli Interni su come faccia a campare e la risposta è che ci sono i NON che vengono dalla prigionia e che campano con poco perché si sono abituati a un basso livello di calorie e quindi faticano parecchio e tengono aperte le sedi del MSI. Mi interesserebbe sapere anche quanti sono stati contattati dopo la guerra dal PCI per vedere se c'era possibilità di fare breccia, come è stato fatto dai comunisti nei confronti dei combattenti della RSI. Mi rifiuto di credere che Togliatti dimenticasse di interessarsi di questa ampia fascia di persone. Sarebbe interessante anche sapere quanti NON hanno avuto contatti con quelle situazioni che poi hanno dato vita a strutture come Gladio. Credo che la maggiore conoscenza delle vostre vicissitudini possa essere estremamente utile in campo storico e non in campo politico perché credo sia opportuno rendere noti i problemi della vostra presenza, della vostra sosfferenza e di quello che le vostre capacità sono riuscite a afre in un frangente di granmde difficoltà e di grande confusione politica e morale dell'Italia dell'epoca. Questo credo che sia un contributo per la storia d'Italia assolutamente importante. SESSIONE POMERIDIANA FORNARO Siccome molti giovani iniziano a interessarsi ai notri lavori, ripetiamo chi sono i non cooperatori. Essi sono coloro che prigionieri di guerra italiani si sono traovati a subire con forti pressioni e minacce l'invito a firmare un impegno
alla cooperazione. Rifiutandosi e non volendo perdere la propria dignità hanno ritenuto di non voler firmare questo documenti. Ho voluto presentare una serie di fatti seguendo cronologicamente gli anni della guerra per evitare che si confondano gli effetti con le cause. Alla fine mi allaccerò alla Convenzione di Ginevra e a quelle odierne. DA METTERE LE SLIDE CHE NON RIESCO AD APRIRE PARLATO Do subito la parola alla Professoressa Bartolini, che insegna letteratura italiana alla Libera Università San Pio V di Roma e che si è occupata della letteratura della Repubblica Sociale Italiana, in un convegno dal titolo "L'onore delle armi", doce espose la memorialistica della RSI. BARTOLINI Devo denunciare un momento di sconforto. Prima abbiamo visto in pochi minuti la cronaca di una sconfitta, in tante lapidi e quindi sono rimasta un po' male. Pensavo mentre scorrevano le immagini che però c'è una nobiltà della sconfitta. William Morris scrisse un libro intitolato proprio "La nobiltà della sconfitta"; Morris si curava dei kamikaze giapponesi: loro hanno questa grande cultura della sconfitta. Lo sconfitto non è colui che deve essere cancellato, lo
sconfitto forse è colui che fa la storia ancora più del vincitore. Perché è facile vincere in questo senso; ci vuole molto più forza a gestire la sconfitta. La nobiltà della sconfitta del Giappone, prima che fosse tanto occidentalizzatoda far fare a Mishima harakiri contro la perdita di identità della sua patria, non ci appartiene. Per noi la sconfittacoincide con la parola "oblio". Coloro che sono stati sconfitti sono satati dimenticati. Il Profesotr Parlato si chiedeva operchè non ci siano memoriali dei cooperatori. Farò riferimento al concetto espresso da Schopenauer secondo cui la follia è il turbamento della memoria, non della ragione. La letteratura dei non cooperatori non esiste, perché non è stata codificata. Ciò che non è stato codificato non esiste e questa letteratura non è entrata nei libri di testo. C'è una memorialistica di guerra, ma della prima guerra mondiale.Non c'è della seconda guerra mondiale perché quella è stata una guerra persa-vinta, cosa che abbiamo solo noi. Viceversa c'è una letteratura della Resistenza e ci sono dei saggi critici in proposito, dove si citano da Calvino con "Il sentiero dei nidi di ragno" alla memorialistica spicciola dei partigiani. Niente di simile avviene per l'altra parte. Le vostre memorie di fatto none sitono, ma ci sono. Bisognerà iniziare a fare una codificazione di questa letterqtura. Oggi non potrò definire la laettreatura dei non cooperatori, perché tutto questo lavoro di base deve ancora iniziare. La prima cosa da fare è cercare di capire da cosa nasce questa letteratura. Il mio punto di partenza, come dicevo, è l'idea schopenaueriana della follia come turbamento della memoria. Se la follia è un turbamento della memoria significa che l'oblio è follia, in modo attivo e passivo. C'è una follia attiva di chi sceglie di dimenticare, cioè la società dei vincitori che ha scelto la propria follia di diemnticare da quella pavesiana parte sbagliata. C'è una follia passiva, non desiderata, che investe coloro che sono oggetto della dimenticanza, ovverossia voi tutti non cooperatori siete dei folli, perché subite l'oltraggio della memoria. Credo che a molti di voi sarà successo di pensare di essere matti perché parlavate di cose di cui nessuno voleva sentire. Questa è la follia-recinto in cui vi hanno rinchiuso. Naturalmente voi avete aiutato tutto questo perché per primi in campo di concentramento vi siete posti fuori dalla storia: avete preteso, con la forza che solo dei folli possono avere, di congelare la storia nello stesso modo in cui avevano congelato le vostre esistenze. I non-cooperatori, posti fuori dalla storia, la congelano. Pretendono che il loro status si fermi dove era quando furono catturati: Eravamo con Mussolini e rimaniamo con lui… NON No, noi eravamo con l'Italia e infatti molti di noi si sono buttati nel MSI per ricostruire l'Italia! BARTOLINI Quel "Io sto con Mussolini" non è col Mussolini e col fascismo, perché molti NON noin erano fascisti. Il fatto è che loro erano andati a far la guerra per l?italia che in quel momento era Mussolini. Perciò il "congelare", il dire "io sto con l'Italia" e l'accusa di essere fascisti. Essere facsisti dopo significava essere italiani. Il primo gradino dunque per entrare nella follia è stato varcato orgogliosamente dai non cooperatori. Questo orgoglio significava per voi, combattenti resi inabili a combattere, partecipare al travaglio della Patria. I non cooperatori sono coloro che dicono: il conto della storia lo paghiamo anche noi. Anche noi di cui in patria si dice che stiamo benissimo, stiamo come in grandi hotel di lusso, e così ovviamente non era. Anche noi nelle cui lettere che arrivano da casa si dice della tragedia dei bombardamenti. C'è un senso di colpa nei non cooperatori di essere loro quais al riparao rispetto alle famiglie che erano su un fronte che coinvolgeva quasi tutte le case. Ecco la grande lezione di questa memorialistica: introdurre la memoria contro l'oblio. Ecco perché i non cooperatori scrivono mentre i cooperatori no: vogliono risarcire questa memoria turbata. Vogliono uscire dal recinto della follia restaurandio la memoria. Leggendo i testi dei non cooperatori, Fazi, Pegolotti, Bigonzoni, Tumiati, Boscolo, Ricciotti-Bornia, Togni, quello che queste memorie fanno è risarcire la memoria con un acartteristica comune: sono incredimilmente sovrapponibili. Se noi prendiamo i testi memorialistici del "soggiorno" in India e del "soggiorno" in Texas raccontano la stessa storia. Ciascuno la vive al proprio modo, però tutti hanno lo stesso spettro di narrazione. Il tratto comune all'inizio è il "Caman", questa parola degli inglesi o degli americani e che i non cooperatori scrivono nella traslitterazione fonica italiana per il rifiuto della lingua del detentore e per l'italianizzazione di un sentire. "Caman" è il simbolo della resa, della sconfitta e della cattura. L'altro simbolo è di tipo ottico-estetico, la losanga blu saulla divisa, cosa molto americana di togliere l'identità al nemico vinto, il tentativo di togliere la volontà e di estrarre il detenuto dal contesto nel quale è stato catturato. Un altro elemento torna costantemente: in tutti i testi c'è uno straordinario inno alla donna, donna che non c'è. Il ricordo della figura femminile, che attendeva, forse non attendeva, che hanno avuto in questi testi, magari in poche parole, un ritratto. All'uomo non manca solo il sesso, manca la sensibilità femminile. Dicevo che i testi dei non cooperatori sono sobvrapponibili, perché raccontando un idem senitre, cioè raccontando di Iol in India o di Hereford in Texas, si leggono quasi e stesse frasi. Questa letteratura sono una grande autobiografia collettiva, pur nella frammentazione delle varie anime di chi scrive. E' l'autobiografia della generazoione di quei folli di cui è stata turbata la memoria e che sono stati condannati all'oblio e che fanno lo sforzoi di uscire dal recinto di questa damnatio memoriae, l'assenza di memoria, e ripristinano la loro esistenza. Quest'estate sono andata a trovare Marchi, un non cooperatore che è stato catturato e detenuto in Africa per mano degli inglesi. Mi ha raccontato un po' di cose, poi quando me ne sono andata mi ha detto "Grazie di essere venuta e di avermi fatto parlare". Io ho detto una cosa a lui che vorrei dire a voi: "Grazie a lei, non perché ci avete consegnato un mondo migliore perché quello non ci siete riusciti, però ci avete dato il germe di qulche idea non proprio avvilente e non proprio deprimente". E di questo vi dico grazie. PARLATO Capisco che per voi vedere chi mette il naso nelle vostre cose possa sembrare un'indebita ingerenza, però penso che questa sia la strada giusta per rendere queste memorie soggetto di letteratura e farle conoscere a un pubblico
diverso. Quando stavo preparando la relazione mi è venuto in mente che volevo accennarvi ad un libro uscito recentemente di Mario Duliani "La città senza donna". Duliani è un istriano di Rovigno che se ne va dall'Istria nei primi anni del ecolo in Canada come emigrante. Il 10 giugno 1940 lui con alktri 25000 italo-canadesi viene messo in campo di concentramento da dove esce soltanto il 10-12 settembre del '43. Per loro funzionava il discorso dell'armistizio, anche perché loro erano cittadini canadesi. Scrive poi questo libro di memorie che è esattamente il filo conduttore che diceva la professoressa Bartolini. Duliani non è un facsista, lo diventa in campo di concentramento perché si secca del fatto che dopo 40 anni che viveva in Canada ciene internato. Vorrei ora chiamare quattro autori di volumi, Fazi, Tavella, Togni e Maluta. Iniziamo con Leonida Fazi, autore di "La repubblica fascista dell'Himalaya". FAZI Noi avevamo degli amici fra gli inglesi. C'è un libro, che penso sia completamente clandestino, "La generazione africana dei morti venduti", scritto da me, che in pratica non è una biografia, ma è quello che i non cooperatori hanno fatto poi. Io per esempio quando son tornato non sapevo fare nulla, perché avevo afferrato una laurea in legge a Ferrara, e si combatteva per un fascismo non imborghesito, non quello che in pratica poi si suicidò. Fu il fascsismo che avvenne nei campi non cooperatori. La massa faceva coincidere Italia e fascismo, tanto che il 25 luglio imputò al creatore del fascismo la colpa di non essere stato un vero dittatore, alla Hitler. Dicevamo: ma perché non hai messo al muro quelli che noi già nel '40 sentivamo che non andavano. Io comandavo un plotoncino di
controcarro, il pezzo di controcarro da 47-32, che non aveva neanche la protezione, per cui chi si sedeva per mirare doveva essere un eroe. Questo imputavamo a Mussolini. Questo è il tradimento che sentivamo e che poi è esploso quando è venuta la cooperazione. La memorialistica dei cooperatori non c'è stata per una ragione semplice. Noi facevamo rappresentazioni teatrali nei campi per passare il tempo e c'erano anche parti da donna, per cui alcuni di noi si dovevano travestire da donna. Alcuni inglesi volevano venire a vedere le nostre rappresentazioni ma noi glielo abbiamo sempre vietato, perché non è bello farsi vedere da un ufficiale nemico vestito da donna. Nei campi dei cooperatori è accaduto questo. Ufficiali in slip e reggiseno ballare con ufficiali inglesi. PARLATO Questa fu la cooperazione. FAZI Molti erano stati presi prigionieri in quella maledizione che fu la ritirata di Graziani, nel '40-'41. Anche un anno in quelle condizioni era veramente duro da vivere. Si viveva gomito a gomito, in baracche divise in "camere" con letti distanti l'uno dall'altro 50 cm, non di più. Abbiamo avuto quattro casi di omosessualità su ottomila. Al campo non cooperatori nessuno. Giovani che non avevano più donne da cinque anni. Spesso si enfatizzano le durezze della prigionia, ma la prigionia è il prodeguimento della guerra che non è comoda, quindi non si può dichiararsi vittima di quelle durezze ma combattenti contro di esse con le armi del decoro e della dignità. Il campo sportivo fu la nostra battaglia. Un bel momento dissi: senti, non possiamo stare qui fermi, bisogna fare qualcosa: facciamo un campo sportivo. Davanti ad ogni recinto c'era il cosiddetto campo della conta, pieno di sassi e buche ed in pendio. Chiedemmo gli arnesi agli inglesi, che, divertiti, ci dettero qualche piccone, qualche badile, due mazze ferrate ed un rullo compressore da spingere a mano. Spianammo quel pendio, ne livellamo la superficie, lo sostenemmo con un terrapieno, facemmo un campo di calcio di misure pressocchè regolamentari, lo cingemmo con una pista per l'atletica e quattro ordini di gradinate di pietre a secco: era la nostra vittoria! Io non solo oggi rifarei le stesse cose, ma oggi, nonostante i miei 89 anni fra cinque giorni, ricomincerei da capo, sia in guerra sia in prigionia dove abbiamo tentato di opporci allo scivolare nel branco. A poco a poco gli uomini diventano bestie, che cercano solo di sopravvivere, un pezzo di pane, un sorso d'acqua , riparasri dal sole… Siamo passati vicino ad un campo di tedeschi e io mi sono vergognato, perché quelli erano veramente soldati, come si sono vergognati coloro che a Bikaneer, nel deserto indiano, si sono trovati vicino ad un campo di concentramento di prigionieri giapponesi. Quando hanno saputo che loro non scrivevanoi a casa, perché avrebbero dovuto al ritorno essere sottoposti a processo per La loro cattura, di fronte a questi esempi sorse la ribellione e la non cooperazione. Tre sono le caratteristiche della non cooperazione: la spontaneità, perché nessuno organizzò la non cooperazione dall'America fino all'India e all'Australia, la spontaneità e la contemporaneità negli stessi giorni. Io ero un fascista fanatico, ma altri no, e il 25 luglio mi aggrappai anch'io a quella famosa frase: la guerra continua, nella speranza che la maestà del Re di Peschiera potesse mutare la sorte della nostre armi, io sacrificai tranquillamente il Duce, che per me era stato il principe della mia giovinezza. Lo sacrificai purchè si vincesse la guerra. Poi l'8 settembre odiai il re, perché ci aveva abbandonato. L'8 settenbre 1943, campo 28, solito trascinarsi mattutino nel campo della conta di quello che ormai era un branco disorientato, anche perché noi avevamo avuto piena consapevolezza degli avvenimenti. Quando qualcuno ci disse che alle 10 dagli altoparlanti sarebbe stata diffusa qualche notizia di importanza eccezionale, quel ronzio che saliva da quella città di 8000-10000 voci diventò clamore. Io risento le parole in questo momento della resa incondizionata cadere ad una ad una come mazzate sulla nuca, come magigni che ti facevano piegare. Ma come? L'Italia aveva perduto la guerra, ma l'aveva perduta in quel modo… Ma la maestà del Re di Peschiera era fuggita dietro le linee enmiche, abbandonandoi tutti, abbandonando anche noi… La vergogna fu il primo sentimento, la disperazione il secondo. Per tre giorni, il gruppo campi fu una tomba e sarebbe rimasta tale senza quei maledetti che squarciarono, insozzarono dicendo alla gente che ormai anelava solo a tornare a casa: a Natale sarete a casa, se cooperate. Allora si palesarono i primi ribelli. Quando uscimmo uno mi diede un pacchetto di sigarette ci salutavamo, eravamo riuniti, ma non il solito branco: eravamo, senza che nessuno l'avesse detto, allineati, un reparto. Quando il quartiermastro disse Camon nessuno si mosse finchè una delle nostre tre medaglie d'oro ce lo ordinò. Quando rientrammo col nostro solito passo cadenzato il quartiermastro sembrava orgoglioso. Anche in Russia ci furono non cooperatori, dove scomparvero 69500 italiani, senza che mai l'Italia ufficiale ne abbia reso conto. Eppure anche lì fiorirono eil loro simbolo è Italo Stagno, il quale a non so chi, uno degli aguzzini italioti agli ordini di Palmiro Togliatti che cooperava e eseortava questa gente a cooperare, rispose: noi siamo legati a un giuramento. Ce l'hanno lasciato i nostri camerati caduti sui campi di neve e sulle steppe gelate e dobbiamo riportarlo a casa intatto. Noi siamo i deputati dei morti. Italo Stagno per aver detto questo fu lasciato morire nel lazzaretto di Kiev senza cure. Ci sublimano proprio coloro che non hanno mai parlato di noi e non ne hanno fatto cenno, perché a dieci di coloro che tornarono dalla Russia nel 1954 furono concesse delle medaglie d'oro al valor militare con una motivazione che più o meno era uguale e che diceva: per non aver cooperato con il nemico nonostante minacce e blandizie con ciò dimostrando che si può essere vinti materialmente ma conservare invitto lo spirito. La mattina del 28 aprile 1946 commemorammo il 25 aprile e il 28 aprile con i brandelli delle vecchie uniformi. Non ci furono discorsi. Ma c'erano tutti, anche i malati. Fu allora che per la prima e l'ultima volta quella bandiera, che a differenza degli altri campi, mai avevamo voluto issare per non rendere con quel simbolo che per noi era ancora sacro prigioniera l'Italia intera, per la prima volta salì una bandiera dal bianco senza stemma, saliva molto lentamente. Lo straccio tricolore si muoveva ancora: era il velo di lacrime che gonfiava le palpebre di ciascuno trattenute a stento, perché piangere non sta bene. E fu allora che si udì un comando secco e sull'ultimo ordine di gradinate si materializzò una squadra armata britannica mandata di nascosto perché vigilasse. Il quartiermastro salutò a quel suo modo britannico scattante e i suoi dodici soldati presentarono le armi. A chi? A noi, che ci avevano chiamato gentlemen e very soldier, ai nostri morti, alla Patria. PARLATO Diamo ora la parola a Tavella, autore del libro "Il mio giorno più lungo". TAVELLA Sono Mario Tavella, sessant'anni fa mi arruolavo nella Folgore della Repubblica Sociale Italiana. Ho combattuto ad Anzio. Catturato dagli Americani ho conosciuto i campi di concentramento di Aversa, Orano e Hereford. Al mio
ritorno a casa ad attendermi c'era il Maresciallo dei Carabinieri. Con viaggio a mie spese sono finito ancora in campo di concentramento a Laterina. A 26 anni sono stato chiamato alle armi per il normale servizio di leva obbligatorio. Altri 15 mesi in divisa. Posso far conoscere le paure dopo la fine della guerra, dopo lo spettacolo barbaro di Piazzale Loreto. Siamo a Hereford, nel campo ufficiali, dove io, soldato semplice, ho vissuto per nove mesi in quanto facente parte della compagnia servizi. LA guerra è finita da due mesi. Siamo a fine giugno 1945. L'arruolamento nelle Italian Service Units è aperto. Gli I.S.U. erano i campi dei collaboratori. Chi vuole può presentarsi negli uffici degli americani e chiedere di collaborare. Non si è mai saputo quanti abbiano aderito. C'è da credere che nonostante la fame e le paure, per i più l'orgoglio e gli ideali abbiano prevalso. Tra quelli che hanno ceduto cito due casi. Uno è quello del tenente D., un amico, uomo solitario e taciturno. Una sera, il suo posto a tavola rimane vuoto. Contemporaneamente un soldato americano passa nel suo box a ritirare il suo sacco blu che aveva preventivamente riempito con tutte le cose da portarsi via. Senza che nessuno se ne accorgesse, senza salutare, d'accordo con gli americani, se ne è andato. L'altro caso è quello del Console A. della MVSN, che corrisponde al grado di Colonnello nell'Esercito. Con lui ho un rapporto quasi confidenziale: il Piemonte ci unisce. Lui ha più del doppio dei miei anni e mi tratta come un figlio. Spesso abbiamo passeggiato fianco a fianco lungo il sentiero che costeggia il reticolato facendo lunghe chiacchierate. E' molto stimato da tutti per le sue qualità che sono autorevolezza, equilibrio e fermezza di princìpi. Buona parte del periodo bellico lo ha trascorso nel deserto libico. Un giorno mentre passeggio pensando ai fatti miei me lo trovo accanto: mi appare teso, impacciato, ma con una gran voglia di parlare. Mi parla della situazione italiana esprimendomi la sua grande preoccupazione. "La guerra è finita da due mesi, mi dice, ma non c'è aria di rimpatrio. Il mio pensiero va continuamente alla mia vecchia madre e a mia moglie, che non vedo da anni. Non vedo l'ora di riabbracciarle. Qui siamo arrivati al rompete le righe finale, e ognuno di noi è più solo. Questa nostra posizione non ha più senso e molti non lo capiscono. La guerra è finita e questo continuare a combattere serve solo a farci del male". Queste erano le parole del console. "Abbiamo fatto tutto quello che potevamo fare ma siamo stati sconfitti. Dobbiamo accettare la sconfitta e riconoscere il governo che c'è in Italia. Che ci piaccia o no, in Italia c'è un governo. Ho pensato a lungo e ho deciso di collaborare, un atto formale di resa per non sembrare arrogante, per non aggravrae la mia posizione. Nella nuova Italia i miei gradi non saranno riconosciuti e sarò degradato. Mi aspettom anche un processo. Succeda ciò che vuole. Non mi interessa più niente. L'unica cosa che mi interessa sono le mie due donne e il loro affetto. Caro Mario– Mario sono io- dovevo sfogarmi con qualcuno ed ho scelto te. Per il momento sei l'unico a sapere. Ti chiedo di non parlarne con nessuno." Se una cannonata mi avesse colpito in pieno petto mi avrebbe fattoi meno male. Ho ascoltato la sua confessione in silenzio: sono stupito e confuso. Mi sento a disagio. Su quel volto segnato di vecchio soldato c'è un'espressione a me sconosciuta: traspare tanta amarezza e un profondo avvilimento. Chissà da quanto tempo si porta dentro questa sofferenza senza parlarne con nessuno. A me crolla un mito, un punto di riferimento. Mi chiedo: perché, con tanti coetanei e pari grado, ha scelto me come valvola di sfogo? Un semplice soldato, un ragazzo: là dentro ho passato i miei diciott'anni. Se la sua è una richiesta d'aiuto sono del tutto impreparato a darglielo anche perché mi trovo su un'altra lunghezza d'onda. Riesco solo a tirare fuori una risposta di nessun rilievo."Certo, signore, la capisco: non ne parlerò con nessuno". A togliermi d'impaccio ci pensano altri ufficiali che si uniscono a noi permettendomi di sganciarmi. E' arrivato il mio turno di lavoro in cucina. Pochi giorni dopo agli ufficiali viene tolta la compagnia servizi ed io, come tutti gli altri che la compongono, vengo trasferito al campo dei soldati. E' così che lo perderò di vista. Qui non è importante però sapere come è andata a finire questa storia, ma quali fossero gli stati d'animo, le sofferenze, le atmosfere. Medito a lungo su questa vicenda, mi rendo conto che non siamo alla sconfitta ma alla disfatta totale, al si salvi chi può. Questo vale per i più anziani, proprio quelli che hanno dedicato gli anni migliori della loro vita al servizio della patria. Le loro paure sono provocate dalle responsabilità derivanti dal grado, dall'età e dal totale coinvolgimento con l'Italia fascista. Nati prima del fascismo sono considerati i padri fondatori del fascismo. Ora che il campo nel quale sono cresciuti è stato sconvolto non sono più trapiantabili. Come vecchie querce, hanno radici troppo profonde. Sono destinate a seccare anche se sono degni di ben altra sorte. Quelli più giovani, al contrario, sembrano spavaldi, quasi strafottenti. Le differenze con i più anziani sono generazionali: sono i soldati, sono i giovani ufficiali. La loro data di nascita dice che sono nati nel grembo del fascismo e che del fascismo sono figli. Sono portatori solo di un peccato originale. Questo squarcio di vita, seppur vissuto così intensamente, può essere considerato un'avventura e nulla più. Sono ancora senza radici, sono in tempo per scegliersi qualsiasi futuro. Questi giovani non vogliono mollare: vogliono essere restuìituiti alle loro famiglie senza piegare le ginocchia. Ognuno deve restare al suo posto, non per il fascismo che non c'è più, ma per l'Italia che c'è ancora e per la divia e la bandiera con le quali l'hanno rappresentata. E sono disposti a sfidare l'America e tutti i Badoglio del mondo. A vent'anni non si ha paura delle conseguenze dei propri atti di ribelline: un'occasione di sfida irripetibile. Il rimpatrio avverrà nove mesi dopo la fine della guerra. MALUTA Sono Emilio Maluta e facevo parte del Battaglione Lupo, Terza Compagnia, X MAS. Non voglio raccontarvi la mia esperienza di campo di concentramento. Grazie alla cortesia dei coniugi Decorti ho avuto la possibilità di
leggre un libro scrtto da Padre Giovanni Brevi, cappellano militare che è stato in Russia prigioniero per dodici anni e per dodici anni ha fatto il NON, come nessun altro sapeva fare. Tornato in Patria, è stato decorato con medaglia d'oro al valor militare. Quest'uomo ha scritto, attraverso vie traverse, una lettera al Pontefice in cui lodava il comportamento dei soldati italiani che avevano continuamente rifiutato di collaborare coi Russi. Non parliamo dei morti: parliamo di quelli che vivi sono morti dopo, nelle celle, fucilati così per caso, per divertimento, per sfizio, privati del cibo, morti per fame, morti per trascuratezza. Ho qui un libro nel quale sono citati mille giudizi sul personaggio Mussolini, di tutti i periodi, prima e dopo la morte. Ne leggo uno: "Mussolini è il più grande uomo da me conosciuto e senz'altro fra i più profondamente buoni. Al riguardo, ho troppe prove per dimostrarlo". Papa Pio XII, 1952. Un altro aggancio me lo concede la Professoressa Bartolini, in quanto ha parlato della donna. In Russia la donna era ricordata con terribili nostalgie, con la sensazione della mancanza della metà. Italo Stagno, già citato, scrisse fra il 1946 e il 1947 una preghiera, ne leggo una parte scritta a Kiev: E tu, signore, che hai veduto il dolore del mondo Tu che del cuore profondo sai penetrare i misteri Questa preghiera Tu ascolta E questa grazia concedi Dammi o signore la forza di fare gli ultimi passi Fa' che io raggiunga la porta dove Mi aspetta la sposa Che ha tutto il pianto negli occhi Tutto lo schianto nel cuore Io devo dirle una cosa Fammi arrivare, o Signore, Sull'uscio della mia cas prima che venga la notte Per dirle solo, o Signore, nell'ultimo abbandono che ho tanto amato il suo amore. Però se ho vinto la morte Ed ho diffuso, geloso, in una lotta senza posa col tempo e colla distanza la mia suprema speranza vivendo come in un sogno la vita che vorrei dimentico della mia sorte, di quello che fu, di quello che sono ma fatto ancora più forte nell'impossibile oltranza per il pensiero di lei e l'estremo bisogno del suo perdono. PARLATO Passiamo all'ultimo autore, Fernando Togni, "Avevamo vent'anni… anche meno" TOGNI Vent'anni io li avevo quasi mentre Mario Tavella ne aveva tre di meno. Quando siamo arrivati a Hereford, da ragazzi, abbiamo trovato questa generazione che aveva dieci anni più di noi e noi eravamo talemnte ragazzi che li consideravamo come zii. Erano nati dentro la prima guerra mondiale mentre noi ervamo degli anni '20. Alcune decine di migliaia di ragazzi dopo l'8 settembre avevano dei sogni. I bravi soldati non piangono, si commuovono. Ricordo un episodio il giorno in cui – io ero furiere della compagnia dei giovani al campo 2 di Hereford- come furiere avevo delle faccende da sbrigare alla baracchetta del comando americano del compound. Eravamo al 28 o 29 di aprile e dovevo battere delle liste di soldati che dovevano andare al lavoro, obbligatorio secondo le Convenzioni di Ginevra. Stavo facendo la mia battitura e ad un certo punto il Comandante del campo arriva con un notiziario in mano e lo butta sul tavolo. C'era a caratteri cubitali: MUSSOLINI E' STATO UCCISO. Ricordo che ho interrotto il lavoro che stavo facendo, sono andato in baracca e diccome avevo ancora la mia divisa e sella divisa non possono scriverti POW, ho messo la mia divisa della Decima e sono tornato a battere le mie liste. Il Tenente mi vede in divisa, si avvicina e mi dice: "Why are you in uniform now?". Siccome il giornale era ancora lì, io ho ripreso il giornale e l'ho ributtato sul tavolo senza commenti come aveva fatto lui. Mi ha guardato e mi ha detto: You are a very good soldier and a gentlemen. Mi ha salutato militarmente e siccome il saluto romano ce lo hanno vietato dopo l'8 di maggio quando è finita la guerra e per me il saluto romano era il saluto militare, io ho risposto al suo saluto con il mio saluto militare. CHIOCCI Quando uno sente rievocare uno come Leonida Fazi, ti dà la sensazioni di essere capitato in cima ad una montagna dall'aria pura. Simonetta Bartolini ha parlato di nobiltà della sconfitta. Vorrei approfondire questo episodio riferendomi ai kamikaze che non andavano a morire per l'Islam ma andavano a combattere per l'Imperatore e soprattutto non uccidevano vittime innocenti ma combattevanop la loro guerra sacrificandosi. L'Ammiraglio Toyo, al processo di Tokyo, che fu molto più infame del processo di Norimerga, perché al processo di Norimberga i vincitori
potevano almeno avere la scusa che i Nazisti avevano fatto lo sterminio, al processo di Tokyo erano solo degli sconfitti che avevano perso la guerra. L'Ammiraglio Toyo quando fu condannato a morte si presentò davanti al boia in tight e cilindro e consegnò al boia una poesia brevissima di due versi che diceva: Come stanno fermi e diritti i crisantemi sull'altare. A me sembra che questa poesia possa essere la spiegazione spirituale del tema del vostro incontro. I NON mi hanno sempre affascinato. C'è una lettera bellissima di un kamikaze cattolico che scrive all amdre prima dell'ultimo volo:" Cara mamma, io sto per partire per l'ultimo volo. Andrò a morire per la mia Patria e per il mio Imperatore. Lo so che il nostro Dio, il Dio al quale ci siamo convertiti, non perdona né i suicidi né i vendicatori. Io sono un suicida ed un vendicatore, quindi non andrò in Paradiso. Ho soltanto un rammarico: quello di non poterti incontarre più perché tu sicuramente ancrai in Paradiso." Per il senso dell'onore e della fedeltà questo era un Prometeo che sfidava persino il Dio al quale si era convertito. Ho sempre pensato i non cooperatori come i samurai: gente che aveva un suo codice d'onore. Il samurai era un servitore leale del proprio padrone. Era il comportamento che contava, non tanto l'ideale per cui si combatteva. Il samurai aveva due sciabole, una per il combattimento e uno per il harakiri. Se un momento il suo padrone doveva comportarsi male, lui non doveva ribellarsi e si suicidava. La resa giapponese fu una resa ben diversa dalla nostra perché in Giappone tutti i giapponesi stavano affilando dei bambù per farne delle spade per combattere contro l'invasore. Churchill disse: "Bisognava gettare la bomba atomica perché altrimenti si sarebbero fatti uccidere tutti: bisognava dare il segno che ci fosse qualcosa di soprannaturale". Dopo la seconda bomba atomica tutti i colonnelli si sbudellarono sul ponte del Palazzo Imperiale. Ecco il senso dell'onore in versione orientale. Ezra Pound è stato fatto passre per matto: solo un matto poteva avere le idee di Ezra Pound. La follia di credere in certe idee è creduta tale dai nostri nemici. Uno dei NON di Gubbio, Wando Rosati, mi affscinò per il pudore con cui faceva i suoi racconti. A Rosati, come ad altri, fu fatta la fucilazione finta: fu messo al muro, gli spararono a salve e lui mi racconta: "Io non avevo paura: non m'importava niente. Ho fatto il saluto fascista poi non ho capito più se ero di là o di qua". Mi raccontò che prima gli era stato mandato il sacerdote per la confessione e lui non si era pentito perché l'unico suo peccato era di aver creduto nel Duce e di aver fatto la guerra per lui. Cosa vergognosa di questi giorni è non tanto ricordare l'8 settembre come data fondante della Repubblica, ma come le parole della massima autorità dello Stato che hanno detto che nell'8 settmbre l'Italia si è ritrovata Nazione. M acome? Era divisa politicamente, moralmente, economicamente… Il simbolo nobile e tragico dell'8 settembre è il comandante Frisio di Cossato che per obbedire agli ordini del Re a cui lui aveva prestato giuramento con la sua nave andò a Malta con il resto della flotta e una volta consegnata la nave all'ex nemico si è sparato sulla tolda della nave. Ecco il samurai che fa harakiri. ACCAME Mi sembra scorretto considerare i kamikaze dei suicidi. Sin dalle elementari ci hanno insegnato a cenerare la memoria di Pietro Micca, ma nessuno ci ha mai detto che Pietro Micca era un suicida. Nella tradizione biblica gli ebrei
venerano la memoria di Sansone, ma nessuno pensa che uno che muore trafiggendo attorno a sé i nemici è un suicida: è un atto di guerra. Vorrei farvi una domanda: volevo sapere se c'era qualcuno delle SS italiane. Li hanno ammazzati tutti? Siamo comunque tutti legati da questo comune trauma dell'8 settembre '43. Tutti quelli che come me hanno visto naufragare l'idea della Terza Roma, dopo quella dei Cesari e dei Papi, quella del Popolo. Questo comune dolore ci ha resi prigionieri del passato. Tuttavia ci rendiamo conto di essere riprecitati nel pieno dell'attualità. Abbiamo giornali pieni di discussioni se Mussolini possa essere paragonato o meno a Saddam Hussein e abbiamo perosnaggi ridicoli, i Fassino, lo storico Tranfaglia, che ancora sessant'anni dopo fanno gli eroici soldatini contro un regime sconfitto nella prima metà del secolo scorso e di cui nessuno pensa la restaurazione. Quelli che non sono combattenti non sono neanche generosi. Sono sicuro che sia Pacciardi sia Delfini, gente che voleva uccidere Mussolini e lo ha odiato, se uno straniero avesse fatto loro il paragone di Mussolini con Saddam si sarebbero offesi perché al di là delle nostre polemiche storiche ci sono dei valori italiani che dobbiamo difendere insieme. Qui è stata fatta e vinta una Rivoluzione con i manganelli che ci distingue dalla sanguinosa Rivoluzione Francese delle ghigliottine e dello sterminio dei Vandeani. Una volta andai dal barbiere e c'era un libretto del Partito Comunista di filosofia di Stalin, poiché Stalin aveva anche la vanità di essere filosofo, e diceva: "Le differenze di quantità fanno anche le differenze di qualità". E' vero: cinquemila confinati politici in Italia fanno differenza rispetto ai milioni di sterminati nei gulag e nei lager. Ho scoperto l'espressione "Volontario di tutte le guerre", espressione tipica del cursus honorum di tutti i gerarchi fascisti. Alfredo Morea era un giovane esponente repubblicano di Fabriano, interventista, poi legionario fiumato. Finito Fiume andò volontario con Grimm per l'indipendenza del Marocco, perché "Volontario di tutte le guerre" prima che fascista era un'espressione tipica repubblicano. Poi in Italia diventa più giovane deputato repubblicano e poi segretario dell'Aventino. Poi viene il regime e viene mandato al confino politico da cui esce per andare volontario in Africa Orientale, perché lui era antifascista ma nella sua concezione non era concepibile non andare ad una guerra. Prende la medaglia d'argento in Etiopia. Ritorna in Italia, dopo un po' ritorna al confino e poi si fa mandare in Africa Orientale alla fine della guerra. Partecipa alla difesa dell'impero, dividela bandiera prima della resa e se la mette sotto la camicia per salvarla e finisce in India. Al momento della scelta di collaborazione aveva disgusto, da antifascista, per Badoglio e per il Re. Ho voluto raccontare questo episodio della sua permanenza a Yol per confermare la varietà di posizioni dei non collaboratori. PARLATO Apriamo il dibattito. COLUCCI Intanto volevo rassicurare il dottor Chiocci. Sono un consigliere provinciale di A.N., qui in questa sal sono presenti un consigliere regionale di AN, il presidente proivinciale di AN, due consiglieri provinciali e due consiglieri di
circoscrizione. Il partito è ampiamente rappresentato e non in contrasto dalla Direzione Nazionale. Mi sembra un aspetto poco approfondito della percezione che hanno i cittadini e la Sinistra della vostra esperienza. C'è una percezione di attenzione, come si legge in un libro del commissario Montalbano di Camilleri, autore di Sinistra. Lo stesso Camilleri riconosce il principio di onestà intellettuale che ha spinto voi a dire di noi. L'8 settembre non può essere considerata una data fondante della Repubblica perché è contraria alla moralità. Una Repubblica non può nascere con l'inganno di dire la guerra continua o la guerra non continua, una Repubblica non può nascere da una fuga: i Re muoiono ma non fuggono. Il vostro convegno che abbiamo sostenuto è importante perché si sta facendo strada l'idea di un recupero della memoria storica. ACCAME A completamento della citazione di Camilleri, che è di sinistra, l'invitai a presenziare a una trasmissione su Pirandello fascista e cominciò a dire che suo padre era squadrista, che lui a dieci anni aveva fatto domanda al Duce per l'Africa Orientale e aveva commesso l'errore di non mettere il suo indirizzo, ragion per cui la risposta del Duce, che ci fu e diceva che quando sarebbe stato più grande avrebbe avuto il tempo di fare le sue imprese, finì all'Opera Balilla di Porto Empedocle. BARTOLINI Stiamo attenti a non dare troppa importanza a questa trasversalità. La pagina di prima mi ha un po' irritato, perché il non cooperatore appare un po' come un buon fessacchiotto. Non ci sto. Non mi basta. Non è il risarcimento della memoria. XXX Quest'estate sono andato a visitare la rocca di Civitella del Tronto, una delle
fortezze borboniche dove gli ultimi borbonici resistettero all'esercito piemontese, con Messina e Gaeta. Resistette 120 giorni. Nella fortezza ho trovato questa lapide: ANCHE UNA CAUSA CONDANNATA DALLA STORIA PUO' NOBILITARSI QUANDO A PREZZO DI VALORE E DI SANGUE SI TIENE ALTA LA BANDIERA DELLA LEALTA', DELLA FEDELTA' E DELL'ONORE PURE SENZA SPERANZA. Si attaglia a voi questa frase? TOGNI Prescindendo dal fatto che è uno sport nazionale consacrato da una dichiarazione di Mario Capanna che nel corso di un'intervista dissa che soltanto
gli stupidi non cambiano opinione, io rimango un ammiratore di Berto Ricci che veniva nettamente da sinistra e diventò un fascista di sinistra e che, quando Montanelli gli disse "Cosa ti viene in mente di andare di nuovo volontario in guerra?", gli rispose: "Indro, nella vita si può cambiare una volta sola" e Berto Ricci è morto in Tripolitania.
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