L'articolo del professor Silvio Pons, direttore dell’Istituto Gramsci, uscito il 17 luglio scorso sul Corriere della Sera col titolo “Gramsci tradito? Nuovi indizi contro Togliatti” ha monopolizzato il dibattito culturale di questa torrida ed interminabile estate che il governo reazionario di Berlusconi, incurante del benessere popolare, come scrive quel simpaticone del prof. Sartori, ci ha imposto. Sono infatti intervenuti, nei giorni successivi, su tutti i giornali, autorevoli studiosi, storici e giornalisti specializzati fra i quali Giuseppe Vacca, Aldo Agosti, Aurelio Lepre, Luciano Canfora, Massimo Caprara, Valerio Riva, Giancarlo Lehner, suscitando il nostro interesse ed il desiderio di trarne spunto di riflessione non tanto sui passaggi essenziali della vicenda, ma per ricordare ai nostri lettori la figura di uno dei protagonisti di quella disputa: Palmiro Togliatti, nel trentanovesimo anniversario della sua scomparsa.
I rapporti fra Antonio Gramsci, in carcere dal 1926 al 1937, anno in cui morì, e Palmiro Togliatti, che visse a Mosca dal 1926 al 1944, e quelli fra il leader antifascista sardo e le cognate Tatiana ed Eugenia, entrambe spie della polizia politica bolscevica (CEKA, poi OGPU, poi NKVD e infine KGB) come la moglie di Gramsci, Julia Schucht, che viveva a Mosca con i due figli Delio e Giuliano, lasciano intuire la terribile solitudine di quell’uomo devastato da un’impressionante sequela di malattie e da tormenti affettivi e ideali, da atroci sospetti e laceranti timori. Perfino il giudice istruttore del tribunale speciale fascista, che aveva intercettato nel 1928 una lettera di Ruggero Grieco dove si metteva in risalto il ruolo di Gramsci quale ideologo e leader del Partito Comunista d’Italia, intuì il torbido disegno dei capi comunisti italiani riparati a Mosca, tanto che disse al detenuto: “Onorevole Gramsci, lei ha degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera”.
Gramsci sapeva benissimo che la lettera di Grieco non poteva essere stata scritta senza il benestare di Togliatti, e quello straziante sospetto lo rose fino alla fine. Sapeva anche, com’è dimostrato da uno scambio epistolare con Togliatti dell’ottobre 1926, che quest’ultimo si schierò apertamente con Stalin contro Trotzky, Kamenev, Zinoviev ed altri importanti capi bolscevichi in contrasto con le esitazioni da lui espresse nei confronti di quei processi che falcidiavano il partito e ne decapitavano interi vertici come fu il caso del partito comunista polacco. Sulla condotta di Togliatti nella vicenda del tentato scambio di detenuti fra l’Italia e l’Unione Sovietica che vide impegnarsi anche il Vaticano allo scopo di liberare Gramsci, gli studiosi stanno ancora dibattendo, ma è opinione condivisa da molti che non fu una condotta limpida. Massimo Caprara ha intervistato per il Giornale (10 ottobre 1999) Olga Gramsci, figlia di Giuliano Gramsci, secondogenito del leader sardo. Sulla prigionia e sulla morte del fondatore dell’Unità, la nipote si è così espressa: “Meglio che mio nonno sia morto in Italia che nei sotterranei della Lubianka”. Su questo era evidentemente d’accordo anche Togliatti come si evince dal seguente aneddoto raccontato dallo stesso Massimo Caprara nel suo libro “Paesaggi con figure” (edizioni Ares). Quando uscì nel 1964 il libro di Renato Mieli (padre di Paolo, ex direttore del Corriere della Sera) “Togliatti 1937 - Come scomparvero i dirigenti comunisti europei”, Davide Lajolo (Ulisse) una mattina, trovandosi solo in ascensore col capo, gli chiese a bruciapelo: “Cosa avrebbe fatto al tuo posto Gramsci nella questione polacca?”. Togliatti, algido e tagliente, replicò: “Sarebbe morto”. Dunque Togliatti sapeva qual era la sorte di chi dissentiva da Stalin e perciò se Gramsci, che dissentiva, fosse arrivato in Unione Sovietica, avrebbe fatto la fine di Kamenev, Zinoviev, Bucharin e migliaia di altri. Ma Togliatti se la cavò. Fu uno dei pochissimi alti dirigenti dell’Internazionale comunista a salvarsi. Quale fu il prezzo?
Diventato segretario del Pci fin dal 1927, dopo l’arresto di Gramsci (1926) Togliatti rientrò in Italia nel 1944 e conservò la carica fino alla morte avvenuta il 21 agosto 1964, a Yalta in Unione Sovietica per una emorragia cerebrale all’età di 71 anni. Di tanto in tanto la figura del capo indiscusso dei comunisti italiani è al centro di rievocazioni e dibattiti, l’ultimo dei quali risale al 21 febbraio scorso su RaiTre. Il programma, in prima serata, recava il titolo significativo “L’enigma Togliatti” e aveva come ospiti i migliori esperti reperibili sull’argomento: Paolo Mieli, Emanuele Macaluso, Giuseppe Vacca, Elena Dundovich, Franco Andreucci. La trasmissione registrò una notevole audience. Eppure non scommetteremmo un centesimo sul fatto che i giovani di oggi delle scuole medie, anche superiori, sappiano chi sia stato Palmiro Togliatti e quale fu il suo ruolo di uomo politico nella storia italiana. Abbiamo posto la domanda ad alcuni ragazzi e ragazze. Uno ci ha risposto: “Togliatti? C’è una strada al mio quartiere con questo nome, ma non so chi sia il personaggio”. E una ragazza: “Togliatti? Era uno scienziato, un inventore di qualcosa”. Non c’è da meravigliarsi. L’altro giorno, in uno di quei fastidiosi programmi di quiz che precedono i Tg delle ore venti, un giovane concorrente, alla domanda di quale partito fosse stato Sandro Pertini, ha risposto: Democrazia Cristiana. Questo è il livello. Per noi, invece, che nel 1948, ancorché giovanissimi, facevamo campagna elettorale nell’Azione Cattolica di Luigi Gedda per impedire al partito comunista di trasformare l’Italia in un satellite di Mosca, cosa che fortunatamente non avvenne per la strepitosa vittoria della Dc e dei suoi alleati alle elezioni del 18 aprile, vera data fondativa dell’Italia democratica e liberale; per noi, dicevamo, il nome di Palmiro Togliatti dice molto. Quel nome evoca un periodo drammatico, che solo grazie a personalità che fronteggiarono eroicamente il comunismo, come Alcide De Gasperi, Giuseppe Saragat, Mario Scelba, Giovanni Malagodi, Luigi Einaudi, Ugo La Malfa, Luigi Gedda, Giovannino Guareschi, ha avuto un lieto fine.
Togliatti fu prima di tutto e sopra ogni cosa un comunista. Era l’uomo di Mosca, più precisamente il più fedele esecutore degli ordini di Stalin. Aveva perfino preso la cittadinanza sovietica e nel 1935 diventò un autorevole membro del Komintern al cui vertice c’era il bulgaro Dimitrov. Al sedicesimo congresso del Pcus, Togliatti così si espresse in merito alla cittadinanza sovietica da lui richiesta ed ottenuta: “È per me motivo di particolare orgoglio avere rinunciato alla cittadinanza italiana perché, come italiano, mi sentivo un miserabile mandolinista e nulla più. Come cittadino sovietico sento di valere dieci volte più del migliore italiano”. Il disprezzo che Togliatti aveva manifestato nei confronti degli italiani ebbe una clamorosa conferma nel 1943. Rispondendo alle sollecitazioni di Vincenzo Bianco, funzionario del Komintern, che gli chiedeva di intercedere presso Stalin a favore dei prigionieri italiani in Russia così rispose (la lettera di Togliatti a Bianco fu rinvenuta dallo storico Franco Andreucci negli archivi di Mosca aperti da Eltsin e venne pubblicata nel 1992 da Panorama suscitando roventi polemiche per alcune manomissioni del testo. Quello che segue è comunque il testo originale, quello vero): “Se un buon numero di prigionieri morirà in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente nulla da dire. Anzi, il fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini e soprattutto la spedizione contro la Russia si concludano con una tragedia, con un lutto personale, è il migliore, il più efficace degli antidoti. Io non sostengo che i prigionieri si debbano sopprimere, ma nelle durezze oggettive che possono provocare la fine di molti di loro non riesco a vedere altro che la concreta espressione di quella giustizia che il vecchio Hegel diceva essere immanente in tutta la storia”. Dunque per Togliatti più italiani morivano a causa delle “durezze oggettive della detenzione” maggiori vantaggi ne avrebbe ricavato la causa antifascista.
Non è il solo esempio di “amor di patria” del capo del Pci. Anche nelle controversie territoriali conseguenti la perdita della guerra, Togliatti si distinse per cinismo e doppiezza. In un articolo pubblicato dall’Unità, Togliatti, che aveva incontrato Tito a Belgrado nel novembre 1946, rivelava la disponibilità del Maresciallo comunista a riconoscere la sovranità italiana su Trieste in cambio del passaggio di Gorizia alla Yugoslavia. Il baratto parve eccellente alla segreteria del Pci che espresse “la riconoscenza del popolo italiano al maresciallo Tito”. I comunisti volevano barattare una città italiana (Trieste) con un’altra città italiana (Gorizia) in ossequio al solidarismo ideologico. Finché Tito non ruppe con Stalin (1948) Togliatti, nella questione della Venezia-Giulia, è stato l’avvocato della Yugoslavia. Non possiamo cancellare dalla memoria l’immagine delle ignobili manifestazioni ostili organizzate dal Pci contro i profughi giuliani, istriani e dalmati, insultati e vilipesi alla stazione ferroviaria di Bologna dove i ferrovieri comunisti minacciarono di scendere in sciopero se un treno stracarico di quegli esuli fra i quali molti bambini, vecchi e donne, fosse entrato in stazione per dar loro modo di bere un bicchiere d’acqua e di rifocillarsi. La loro colpa era quella di essere scampati alle foibe ed alla pulizia etnica titina. Fu una diaspora di trecentocinquantamila nostri connazionali che avevano lasciato tutto per avere almeno salva la vita.
Togliatti non fu tuttavia solo questo. Fu anche il promotore dell’amnistia per i reati comuni e politici, varata il 22 giugno 1946, quando era ministro della giustizia nei governi ciellenisti di Ferruccio Parri e Alcide De Gasperi. L’amnistia si estendeva anche ai fascisti e per questo incontrò l’opposizione di Pertini e degli Azionisti, ma furono soprattutto i partigiani, macchiatisi di delitti efferati dopo la liberazione e fino a tutto il 1948, a beneficiarne. Basti solo citare le imprese della famigerata “volante rossa” in Lombardia e gli eccidi nel cosiddetto triangolo della morte emiliano. L’amnistia fu comunque un atto di pacificazione del quale bisogna dare atto al leader comunista. Scrive Giano Accame nel suo bel libro “Una storia della Repubblica” edito da Rizzoli: “Togliatti, nelle funzioni di guardasigilli, si comportò come un liberale piemontese di antico stampo, preoccupato di ben figurare nel concorrere al rapido ripristino della legalità e dell’ordine; ma la presenza alla Giustizia gli suggerì che uno dei poteri dello stato poteva col tempo essere occupato preparando sistematicamente dei giovani laureati comunisti ai concorsi per entrare nella magistratura. Cosa che avvenne con effetti che cominciarono a vedersi con la proliferazione dei “pretori d’assalto” negli anni Settanta e, secondo alcuni critici della magistratura politicizzata, con l’operazione “mani pulite” e le molteplici inchieste sugli affari di Berlusconi”.
Come si vede, Togliatti sapeva guardare lontano. Fece ponti d’oro agli intellettuali, ai cineasti, agli artisti che si erano compromessi col fascismo così come ai professori universitari che avevano giurato fedeltà al Duce assolvendoli da ogni peccato in cambio della militanza o almeno del fiancheggiamento al Pci. Fu un vero esercito di solerti versipelle che Nino Tripodi ha ben stigmatizzato in due clamorosi libri ormai introvabili: “Italia fascista in piedi” e “Intellettuali sotto due bandiere”, entrambi usciti dall’editore Ciarrapico.
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Togliatti rappresentava il Pci affiorante, dialogante e democratico, ma in quegli anni c’era un altro Pci, armato, rivoluzionario, intransigente che aveva in Pietro Secchia il suo leader. Soffitte, scantinati, fienili e baite erano pieni di armi leggere e pesanti lasciate sul campo dalla Whermacht in ritirata ed anche dagli alleati, ma soprattutto non consegnate dai partigiani dopo il 25 aprile. Armi trattenute e conservate in attesa dell’ora x. Sarebbe bastata una scintilla per accendere il fuoco e far piombare l’Italia in una seconda e più devastante guerra civile. La prova generale fu data alla fine di novembre del 1947 dal caso del prefetto di Milano Ettore Troilo, ultimo dei prefetti insediati dal CLNAI per meriti resistenziali e politici. Quando il ministro dell’Interno Mario Scelba decise di sostituire quei funzionari d’emergenza con altri regolari e di carriera scoppiò il finimondo. Giancarlo Pajetta ordinò alle bande partigiane comuniste di Sesto San Giovanni di marciare su Milano e occupare la prefettura. Cosa che avvenne col tacito assenso di chi doveva difenderla, ovvero lo stesso prefetto-partigiano Ettore Troilo. Raggiante per la conquista, il rivoluzionario Pajetta telefonò al segretario del partito e gli comunicò l’impresa. “Bravi” commentò gelido Togliatti “e adesso che avete occupato la prefettura cosa intendete farne?”. Era un pragmatico, Togliatti. E molto intelligente. Sapeva che in Italia era impossibile andare al potere con la rivoluzione, ma lo sarebbe stato solo con una lunga marcia di conquista all’interno della società. E nella società italiana il Vaticano, ancorché privo di divisioni corazzate, di navi e di aerei, era una considerevole potenza. Il 22 dicembre 1947 fu approvata la Costituzione nella quale furono inseriti i Patti Lateranensi firmati da Mussolini e dal cardinal Gasparri nel 1929 per normalizzare i rapporti fra lo Stato e la Chiesa cattolica, rapporti interrotti dal 1871 con la caduta dello Stato Pontificio. Togliatti fece votare il Pci a favore del recepimento dei Patti Lateranensi nella legge fondamentale della Repubblica nonostante l’opposizione dei liberali, dei socialisti e degli azionisti. Anche in questa congiuntura dimostrò una grande lungimiranza e accortezza.
Il 14 luglio 1948 uno sconosciuto studente venticinquenne siciliano di nome Antonio Pallante ferì gravemente il segretario del Pci mentre usciva da Montecitorio in compagnia di Nilde Jotti. L’Italia precipitò sull’orlo di una rivolta. Fabbriche, piazze, ferrovie, centrali telefoniche, perfino caserme dei carabinieri caddero nelle mani di masse di dimostranti armati. La Cgil proclamò lo sciopero generale contro il parere della componente cattolica che per questo di lì a poco uscì dalla confederazione unitaria e diede vita ai sindacati liberi (Cisl). Decine di dirigenti industriali, fra i quali Vittorio Valletta della Fiat, furono sequestrati. Conserviamo il nitido ricordo del sequestro di un esponente democristiano della nostra città, si chiamava Raineri Fin, messo in atto da una squadra di picchiatori partigiani comunisti comandati dal sindaco. Il malcapitato fu rinchiuso in un angusto porcile con i maiali e fu liberato solo dopo che la sommossa cessò. Chissà se gli onorevoli ex democristiani Pierluigi Castagnetti e Rosy Bindi, ora alleati di Cossutta, Bertinotti e D’Alema se le ricordano queste trascurabili cosette! A Montecitorio scoppiò il finimondo. Nei tumulti di piazza ci furono una ventina di morti e centinaia di feriti fra dimostranti e forze dell’ordine. Matteo Secchia (fratello di Pietro, il leader dell’ala rivoluzionaria del Pci) corse all’ambasciata sovietica a prendere ordini, ma la risposta fu di fermare subito i tumulti. L’insurrezione non rientrava nel disegno strategico di Stalin e poi c’erano gli accordi firmati a Yalta nel 1945, in base ai quali le potenze vincitrici della guerra avevano diviso il mondo in aree di influenza. E l’Italia rientrava (per fortuna) in quella dell’occidente. Togliatti conosceva benissimo queste cose e appena uscì dall’intervento chirurgico effettuato dal professor Valdoni espresse con voce flebile e sofferente parole incitanti alla calma. Lo sciopero generale della Cgil fu immediatamente sospeso. Bartali vinse il giro di Francia. L’Italia tirò un sospiro di sollievo.
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Il 5 marzo 1953 morì Stalin. Togliatti, nel discorso commemorativo pronunciato alla Camera dei Deputati, definì il dittatore comunista “un gigante del pensiero; un gigante dell’azione” e ancora “il suo paese, il primo paese socialista, fu da lui portato al rinnovamento economico, al benessere, alla compatta unità interna, alla potenza. Oggi è il primo al mondo (…). Ha un termine la vita eroica del combattente vittorioso. La sua causa trionferà in tutto il mondo. La creazione dell’Unione Sovietica è il fatto più grande della storia contemporanea”. Passarono appena tre anni e Stalin venne accusato dal suo successore, Nikita Chruscev, al ventesimo congresso del Pcus svoltosi a Mosca nel febbraio 1956, di immani crimini, di culto della personalità, di tradimento nei confronti del partito. Fu un rapporto segreto riservato alla élite della dirigenza comunista internazionale di cui Togliatti era parte autorevole. Solo alcuni mesi più tardi (4 giugno 1956) il rapporto di Chruscev fu reso pubblico dal giornale americano New York Times scatenando lo sconcerto fra i militanti e gli stessi quadri dirigenti del Pci che pretesero dal capo chiarimenti ed istruzioni. In quei giorni gli agit-prop delle scuole di partito che solitamente animavano i capannelli in piazza Maggiore a Bologna e nei bar dei paesi delle province emiliane, erano scomparsi. Attendevano ragguagli. Non sapevano cosa dire. Avevano lasciato il campo agli avversari; pochi in verità in terra emiliano-romagnola dove esprimersi pubblicamente contro il comunismo ed i comunisti era pericoloso. Togliatti intervenne con un lungo articolo sulla rivista Nuovi Argomenti nel quale ribadì la superiorità del sistema sovietico sulle democrazie occidentali limitandosi a definire “errori” i crimini del periodo staliniano. Sapeva di essere sempre stato non solo al corrente, ma compartecipe e avallante di quel terrore nel quale finirono eliminati anche centinaia di comunisti italiani riparati in Unione Sovietica a partire dal 1922. Sapeva anche che il comunismo o sarebbe stato di tipo stalinista o non sarebbe esistito. Condannare totalmente Stalin significava liquidare l’idea stessa del comunismo sempre identificata come marxismo-leninismo-stalinismo.
Il 1956 riservò al capo comunista italiano altri grattacapi. Dopo la rivolta operaia antisovietica scoppiata alla fine di giugno a Poznan, in Polonia, definita da Togliatti “una provocazione”, ne esplose un’altra molto più grande in Ungheria fra ottobre e novembre. Fu una vera sollevazione di popolo contro l’occupazione russa e le condizioni miserevoli e di terrore poliziesco imposte dai governanti collaborazionisti locali. Per la stampa del Pci la rivolta ungherese, come quella di Poznan di pochi mesi prima, era una “provocazione” dell’imperialismo capitalista, reazionario, clerico-fascista che mal sopportava le radiose conquiste democratiche giunte in Ungheria al seguito dei carri armati sovietici. I rivoltosi erano definiti teppisti e mercenari. Il 25 ottobre Togliatti intervenne personalmente sull’Unità con un famoso articolo intitolato “Da una parte della barricata a difesa del socialismo” e il 30 dello stesso mese in un altro articolo scrisse “a una sommossa armata che mette a ferro e fuoco la città non si può rispondere se non con le armi perché è evidente che se ad essa non viene posto fine è tutta la nuova Ungheria che crolla”. Giancarlo Pajetta, il saltatore di banchi a Montecitorio, l’occupante della prefettura di Milano, gridò a squarciagola a conclusione di un suo focoso intervento filo-sovietico alla Camera dei Deputati: “Viva l’armata rossa”. Il 29 ottobre un gruppo di intellettuali di sinistra (come si chiamavano allora i fiancheggiatori del Pci) redasse un manifesto nel quale si chiedeva una condanna esplicita dell’invasione sovietica dell’Ungheria e un “rinnovamento profondo del gruppo dirigente del Pci”. Il manifesto recò, fra le altre, la firma di Lucio Colletti, Renzo De Felice, Antonio Maccanico, Piero Melograni. Presero poi tutti le distanze dal comunismo. Al congresso che si tenne in dicembre Togliatti riuscì comunque a portare quasi tutti i delegati (1022 su 1064) sulle sue posizioni filosovietiche. Fra i più allineati si distinse Enrico Berlinguer. Nel paese però non fu così. Il Pci registrò una forte perdita di iscritti e nel Psi prese il sopravvento la corrente autonomista di Nenni. Dopo due anni di dura detenzione e di processi tutti i leaders della rivolta ungherese furono impiccati. Togliatti approvò. L’ultima apparizione televisiva del leader del Pci fu quella del 22 febbraio 1963. Al giornalista Mario Pastore che gli chiedeva se durante i lunghi anni di soggiorno in Unione Sovietica fosse stato al corrente dei crimini di Stalin, Togliatti rispose freddamente: “Noi non c’entriamo con gli errori (milioni di deportati, torturati, fucilati per Togliatti sono sempre stati definiti “errori”, mai crimini, ndr) di Stalin. Eravamo impegnati contro il fascismo”. Mentiva spudoratamente. D’altronde fu il solito Pajetta ad affermare: “Fra la verità e la rivoluzione scelgo la rivoluzione” che tradotto significa “viva la menzogna se giova alla conquista ed al mantenimento del potere”. Togliatti ostacolò sempre ogni tentativo di far luce sul prezzo pagato dal popolo alla dittatura comunista in Unione Sovietica anche quando il cupo Hotel Lux era ormai lontano e Stalin era stato sloggiato financo da cadavere dalla piazza rossa di Mosca. Sono passati trentanove anni dalla morte del Migliore. Il comunismo è fallito. La gloriosa Unione Sovietica che doveva superare il mondo libero occidentale in tutti i campi è scomparsa; il Pci si è sbriciolato in tre tronconi. Togliatti non ne ha azzeccata una. È stato un impasto di cinismo e intelligenza, di condiscendenza e durezza, di ortodossia stalinista e pragmatismo interessato. Fu un uomo di grande cultura, ma asservì la cultura agli interessi del partito. Patì traversie personali e umane, ma non aveva amici coi quali confidarsi. Neppure uno. Il suo retaggio si pone tra i peggiori dal punto di vista politico, sociale e soprattutto morale della storia italiana anche se, su di esso, galleggiano ancora molti dei suoi orfani ed aspiranti eredi. |